8 marzo 2024, a cura di Francesco Rigodanza
Il Nepal è uno stato asiatico composto al 15 % da montagne Himalayane. Quel 15% è spesso il chiodo fisso di amanti della montagna che per anni sospirano pensando alle emozioni che si potrebbero vivere davanti a cime troppo alte per essere immaginabili, circondate da troppo poco ossigeno per salirci con facilità.
È un chiodo che da tempo si è conficcato nella testa di Alessio, amante di corsa, sci, alpinismo e qualsiasi altra cosa lo costringa a tornare a casa sfatto. Alessio è anche amante di stare in compagnia e coordinare persone e quindi in pochi mesi ha convinto quattro suoi amici, con cui condivide alcune di queste sue passioni, che andare in Nepal a inizio Gennaio e fare 220 km in 6 giorni intorno all’Annapurna, uno dei più pericolosi 8000, scavallando ai 5400 m del Thorung La Pass, sia una figata pazzesca.
Michele, Roberto, Camilla e Francesco a questo ottimismo spinto di Alessio ci hanno creduto. Davvero. Oppure si sono resi conto che fare un viaggio tra amici dall’altra parte del mondo non sia cosa da tutti i giorni, e se bisogna fare qualcosa ad alto rischio di sfinimento ed esaurimento meglio farlo vicino a persone con cui ci si sente a proprio agio a fare schifo, perché succederà spesso.
E così il 3 Gennaio 2024, alle tre di pomeriggio, dopo tredici ore di volo, otto di Jeep, una prima introduzione al cibo piccante nepalese, smisurato Jet-Lag, Alessio, Roberto, Camilla, Michele e Francesco hanno prelevato il loro zaino da 20 L da una Skorpius impolverata, constatato che fosse troppo pesante per quello a cui erano abituati, controllato di aver preso tutto, scrutato l’orizzonte in cerca di quei famosi monti grossi, e sono partiti da Besisahar per il loro Annapurna Circuit Trekking.
Day 1 - Besisahar – Sjange. 20 km 900 d+“Mi lascia senza fiato”
Turista occidentale al primo assaggio di Dal Bhat piccante
Besisahar, il villaggio da cui parte il Trekking, è un piccolo agglomerato di case a bordo torrente a 700 metri di altitudine. Il paesaggio è quello di una foresta tropicale che non vede piogge da un po’. Perché qua gennaio è il mese freddo e secco. Lo si capisce dalla polvere che abbonda su strade e piante, mentre gli abitanti di tanto in tanto escono a bagnare l’uscio di casa per poter respirare senza scaldacollo davanti alla bocca. Non si vedono montagne innevate in lontananza, troppa foschia, e quelle che per ora circondano la valle sono ricoperte di vegetazione fino alla punta. Per nulla simili all’immaginario delle montagne nepalesi. Eppure, sono già vette da quasi 4000 metri.
È lunga una valle himalayana. Lunghissima. Così lunga che la partenza è quanto di più diverso ci si può aspettare da un sentiero di montagna. Larga strada asfaltata male con passaggio camion. Sì, sarà molto lunga la strada verso il passo.
È un momento strano la partenza di un lungo viaggio. Uno stretto intervallo di tempo in cui si rilascia tutto ciò che la testa ha creato nei mesi precedenti. Ansie, aspettative, preoccupazioni, speranze, paure, motivazioni. Tutto. E infatti le sensazioni sono pessime. Iperattenti a possibili reazioni che anticipino il risultato finale. Sì, i primi dieci minuti di un trekking di più giorni sono sempre deludenti. Per fortuna, come ogni momento brutto di un viaggio, poi passa.
Alessio, che è quello che questo bagaglio lo sente di più, è il primo a fermarsi. Momento pipì. Michele lo accompagna. È il più giovane e inesperto del gruppo e quindi ha saggiamente scelto di copiare ogni azione del suo coordinatore. Francesco ha già bucato il sacchetto dello zucchero, quello che doveva servirgli per tutto il viaggio, e sta cercando di recuperarne il più possibile senza mischiarlo alla polvere della strada. Camilla ha appena realizzato tutti gli errori di preparazione zaino, nonostante sia stata consigliata a farlo almeno cinque volte nei giorni precedenti. Roberto sta già guardando la lenta media al chilometro. È sempre così. I primi dieci minuti sono un feedback a tutto quello che si è fatto di sbagliato prima. Perché due cose non mentono mai: articolazioni delle ginocchia e spallacci dello zaino.
Dopo i primi dieci minuti di spaesamento iniziale, il gruppo prosegue a ritmo entusiasta, oggi li attendono solo 20 km per arrivare ad un primo villaggio di sosta: Sjange. Perché è pur sempre gennaio e il sole in queste strette valli cala alla sei di sera.
La strada è tutta in su. Per i primi giorni sarà sempre così. O molto in su o leggermente in su. Si attraversano molti villaggi colorati, si risponde alle prime domande di richiesta provenienza e ci si interroga su quelle risate dei bambini seguenti il proprio passaggio “non hanno mai visto gente vestita fluo con colori abbinati male e gambe esageratamente grosse?”
Roberto appena può corre, anche in salita. Alessio registra video per contenuti. Michele chiede. Camilla cerca discese. Francesco arranca e si lamenta.
Di solito il malessere da partenza dura dieci minuti. Francesco ne ha fatte tante di partenze così e lo sa bene. Ma questa volta sta durando di più. Troppo di più. Forse è lo zaino, forse è il Jet-Lag. Forse è lui che non è in grado. Si preoccupa. Francesco è qua perché a lui le montagne piacciono tanto, più di ogni altra cosa, e siccome queste montagne sono più alte di ogni altra, è convinto gli piaceranno ancora di più. È per questo che ha detto di sì di Alessio, certo gli amici, il viaggio, l’avventura, la sfida fisica, tutti validi motivi, ma alla fine c’è sempre una cosa che accende la scintilla della passione e della determinazione, e quella cosa per Francesco è la lacrimuccia che scende quando si trova davanti a montagne molto belle.
Non era neanche molto preoccupato prima della partenza. Ingenuo. Ha già fatto tanti viaggi così. Ma era anni fa. Quando era un atleta. Faceva gare, podi e cose competitive. E ora basta. Usa quell’energia e quel tempo per stressarsi di più al lavoro. E i trekking non mentono. Francesco non è più quell’atleta e se ne è appena accorto. O Convinto. E mentre rallenta, mentre continua a sperare in una crisi passeggerà inizia a temere di non riuscire a vedere per davvero quelle montagne. Maledetti tarli negativi che si infilano nella testa.
Gli ultimi metri prima di Sanje sono una ripida scalinata in discesa, due curve per sbaglio e un ponte tibetano. Probabilmente il nono di giornata. E poi, proprio sull’imbrunire, ecco il primo riparo della notte. Quasi scelta obbligata senza fare tanto gli schizzinosi. I cinque viaggiatori si trovano in un hotel di legno con ampi spazi, dove gli spazi sono tra le assi di legno, non dentro l’alloggio. Piccole camere molto essenziali con dei materassi appoggiati per terra, una presa elettrica e assenza di bagni. Un primo esercizio di adattamento.
È solo il primo giorno, non sono passate neanche tre ore dalla partenza, eppure a ritrovarsi insieme intorno ad un tavolo illuminato poco in attesa di piatti della cucina locale, ci si sente come se si fosse già in viaggio da mesi, come se improvvisamente quelle abitudini appena create, quelle dinamiche di gruppo, fossero già lì da sempre, ad aspettarli in Nepal. Non serviva inventarsi niente. Bastava arrivare lì.
Cibo, risate, cazzate, piani utopistici, prime promesse “ma se arrivo vivo in fondo poi…” e si va a letto ognuno nel suo sacco a pelo aspettando gli altri 200 km che mancano all’arrivo.