Guai a chi lo chiama sacrificio: intervista a Oliviero Alotto

Fare sport è una scelta costante. Scegliere ad esempio se svegliarsi presto per incastrare un allenamento o dormire di più. Scegliere cosa mangiare, quanto bere, quanto riposare. Scegliere se presentarsi alla partenza o rinunciare, ma soprattutto scegliere se fare fatica. La fatica nello sport, come nella vita, è quello che metti sul piatto per raggiungere i tuoi obiettivi. È il carburante, perché poco o nulla è regalato nello sport, così come nella vita. 

È di questo che abbiamo parlato con Oliviero Alotto, trail runner italiano, qualche settimana fa quando ci ha raccontato dei suoi ultimi viaggi e competizioni.

Oliviero, che cosa ti ha avvicinato alla corsa e cosa ami del correre?

Molti cominciano a fare sport per stare in forma e non certo con l’obiettivo di performare. Io corro perché mi piace esplorare. Sono convinto che il viaggio arricchisca e correndo o pedalando ho quel senso di libertà e conquista di un luogo, che solo la lentezza e la fatica ti sanno dare. Sì, la fatica. Mi piace ripetere che se in un luogo ci sei arrivato facendo fatica quel luogo lo sentirai tuo per sempre. Se i tuoi passi hanno calpestato un sentiero che porta in una città, in un paese o su un monte, quel luogo l’hai desiderato per tanto tempo, e sarà più tuo.

Esiste una narrazione dello sport (soprattutto di quello competitivo) che fa leva sul sacrificio. Nell’endurance, dove le distanze sono lunghissime, è ancora più facile che sia così. Cosa ne pensi?

Nello sport il rapporto causa effetto è chiarissimo: mi alleno con metodo, rispetto il mio corpo, ho una sana alimentazione, dormo bene e allora il mio livello di salute sarà più alto rispetto al condurre una vita sedentaria, mangiare molto male e non rispettare il sonno. Ma tutto questo non deve, a mio avviso, mai essere percepito come un sacrificio, ma al contrario come una fatica che ci aiuta a stare bene e che parte da un nostro bisogno.

Del resto per ogni arrivo esiste una partenza, non ci sono shortcuts.

Nelle gare ultra che mi piace affrontare, spesso si rischia di raccontare queste esperienze come al limite e come eroiche. Al contrario io credo che per affrontare al meglio queste esperienze si debba riuscire a stare bene ad essere a proprio agio. Certo, perché questo avvenga, si deve essere allenati, non si può improvvisare. Le ultra per la mia esperienza ci portano a cercare in fondo alle nostre risorse, e forse la cosa più bella è proprio sapere che dentro di noi quelle risorse esistono, si tratta solo di cercarle e di utilizzarle. Ma questo non è mai stato sacrificio. Certo c’è la fatica di cercarle, di continuare ad andare avanti quando ti sembra di essere arrivato al limite delle risorse, ma non è un sacrificio.

Quindi fare fatica sì, ma chiamarla sacrificio no.

Il sacrificio ha solo un accezione negativa perché significa appunto, sacrificare qualcosa a favore di qualcos’altro. Personalmente invece penso che la fatica rappresenti lo sforzo, che nella sua interezza porta ad un benessere successivo, senza dover mettere su un ipotetico altare qualcosa da abbandonare, ma proprio solo per il gusto di aver conquistato un obiettivo, che se ambizioso ci porterà appunto a faticare. Esattamente come quando stiamo affrontando una salita: certo fatichiamo, ma sappiamo benissimo che arrivati in cima ci aspetta un panorama, una pausa, un respiro, che senza quella fatica non ci sarebbe mai stato.

C’è una gara che pensi sia un po’ l’emblema di tutto questo?

Mi viene spontaneo pensare ad una gara come il Tor Des Geants, che ho concluso diverse volte. Si tratta di un percorso di 350 km con 25.000 metri di dislivello, in una tappa unica, il che significa provare ad affrontarla tutta d’un fiato, o comunque cercando di limitare al massimo le pause, anche quelle per dormire. In queste lunghe ore sulle gambe tra corsa e cammino, salite e discese, la cosa migliore è cercare di darsi dei piccoli obiettivi, e paradossalmente cercare di stare bene, essere sempre presenti nel qui e ora, come insegnano gli asiatici, che cercano di vivere il momento. La fatica è per me uno strumento per vivere quel momento, per starci dentro e sapere che si può superare.

 

© photo: Matteo Rebuffo